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14. Diane Arbus: diversità , di Cinzia Busi Thompson

14. Diane Arbus: diversità , di Cinzia Busi Thompson

I “fenomeni” sono qualcosa che ho fotografato a lungo. Sono stati una delle prime cose che ho fotografato e sentivo una specie di terrificante eccitazione. Ero abituata a adorarli. Ancora oggi adoro alcuni di loro. Con ciò non voglio affermare che essi siano i miei migliori amici, ma essi mi fanno sentire un insieme di vergogna e soggezione. In loro c’è come una qualità di leggenda. Come una persona in una fiaba che ti ferma e ti chieda di rispondere ad un indovinello. La maggior parte delle persone attraversa la vita temendo d’avere esperienze traumatiche. I “fenomeni” sono nati con i loro traumi. Essi hanno già superato il loro test nella vita. Essi sono aristocratici”. Diane Nemerov (1923-1971) nasce a New York da una ricca famiglia ebrea proprietaria di un gran magazzino sulla Quinta Strada. Il padre è una figura quasi assente nella sua vita, perché completamente assorbito dalla sua attività commerciale; la madre delega l’educazione e gli affetti alle governanti che non riusciranno però a sostituire le figure dei genitori. A colmare questa lacuna c’è la grand’affezione e comunione di valori che unisce Diane e suo fratello maggiore Howard. Frequenta l’Ethical Culture School che è una scuola molto progressista. Durante i suoi studi dimostra di essere una studentessa particolarmente dotata, specialmente nelle lezioni d’arte, dove essa disegna, dipinge e fa collages. Prende lezioni anche da Dorothy Thompson che la introduce nel mondo di George Grosz che diviene il suo artista preferito ed al quale essa s’inspirerà poi nella scelta dei suoi soggetti fotografici, ed in particolare ad alcuni aspetti umani da lui evidenziati nella sua opera quali la lascivia, l’alcolismo e l’ingordigia. Appena quindicenne s’innamora d’Allan Arbus che lavora nel gran magazzino di proprietà dei Nemerov. La sua famiglia è contraria a questo legame e farà il possibile per ostacolarlo, ma Diane è molto determinata e lo sposa al compimento della maggior età. Assieme al marito si dedica alla fotografia di moda, pur detestandola, per conto della rivista Glamour. Poi la loro attività si rescinde: Allan continua a seguire la fotografia di moda; Diane segue i suoi istinti e va verso una fotografia più “seria”. Anni dopo, intervistata da una rivista afferma di aver cominciato a fotografare seriamente solo a 38 anni “Perché una donna passa la prima parte della sua vita cercando un marito ed imparando ad essere moglie e madre, e ciò non lascia tempo per giocare altri ruoli”. Frequenta i workshop tenuti da A. Brodovitch (“Se vedete qualcosa che avete già visto, non premete il bottone”), ma l’estrema malinconia del personaggio fa che presto Diane abbandoni i suoi seminari. Comincia allora studiare gli autori del passato quali Nièpce, Cameron, Brady, Hine e Stieglitz. Di quest’ultimo ama in particolare il concetto di “equivalente”, ma non condivide che l’eccellenza della stampa sia decisiva nel giudizio fra una buon’immagine ed una mediocre. Poi la fotografa Lisette Model entra nella sua vita. La Model é nota soprattutto per le sue immagini estreme in termini di contenuto e di dimensione. Lavora su formati che, negli anni ’40, sono considerato molto grandi (40×50) e riprende ubriachi, straccioni, gente molto magra o molto grassa, molto ricca o molto povera. Fa sviluppare i suoi rullini dal drugstore locale. L’affermazione più celebre della Model “La macchina fotografica è uno strumento di indagine … noi fotografiamo ciò che conosciamo e ciò che non conosciamo … quando punto la mia macchina verso qualcosa sto facendo una domanda e la fotografia è, a volte, una risposta … In altre parole, non sto cercando di provare niente. Sono io quella che sta ricevendo la lezione” da più di una semplice idea del personaggio con cui questa fragile e depressa giovane donna (Diane) sta confrontandosi. Il suo lavoro è basato sul fare capire e superare la gran differenza che c’è tra quello che l’occhio vede e ciò che la macchina vede, in altre parole come trasformare la tridimensionalità della vista nella bidimensionalità dell’immagine.

Diane Arbus

Armata di macchina fotografica Diane comincia a girare per le strade, a superare tutta la sua timidezza ed i suoi complessi per chiedere ai soggetti il permesso di riprenderli. Ciò per lei costituisce un’espeBoy with a straw hat waiting to march in a pro-war parade, N.Y.C. 1967 Foto di Diane Arbus Identical twins, Roselle, N.J. 1967 Foto di Diane Arbus 43 rienza profonda perché c’è il rischio di vedere noi stessi come gli altri ci vedono. Ecco che nascono le prime immagini di travestiti, gemelli, nani, persone con problemi mentali. Non riprende mai in ogni caso vittime di guerre, di incidenti, o meglio di “orrori pubblici”; sono soggetti incontrati casualmente che non hanno storie pubbliche da raccontare (“Mi attira pochissimo fotografare persone note o anche soggetti noti. Mi affascinano quando li ho a malapena sentiti nominare”). Essi, non solo sono consapevoli, ma quasi desiderosi di essere ripresi guardando direttamente nell’obiettivo. Ripercorrendo le tappe storiche si assiste ad un lavoro non molto dissimile, se non nelle motivazioni, da quello di August Sander e Brassaï Le intenzioni e l’interesse dell’Arbus per i suoi soggetti sono assolutamente sinceri ed essi lo sentono. Si stabilisce immediatamente una sorta di empatia che permette ad entrambi di agire con la massima naturalezza ed al soggetto, in particolare di mostrare, al di là della sua superficie, il suo vero sé interiore. Probabilmente, infatti, il suo lavoro meno riuscito è proprio quello sulle persone affette da sindrome di Down con le quali non riesce ad entrare in contatto. Diane Arbus si trova, infatti, di fronte ad un muro impenetrabile che non le permette quello scambio vitale che rende i suoi soggetti ricchi di umanità, senza mai cadere nel pietismo. È la prima fotografa ad usare il flash in esterno alla luce del giorno; questo per riprendere le persone nella loro spontaneità, soprattutto nei controluce, non dovendoli obbligare a muoversi per avere una luce favorevole. Questa tecnica crea un notevole contrasto tra il soggetto e lo sfondo. Ma è importante evidenziare il fatto che generalmente questo è “neutro”, in altre parole non interviene nel significato dell’immagine, non offre indizi. Negli anni ’60 a New York impera la Beat Generation con le sue droghe, il sesso libero, le religioni trascendentali, l’arte psichedelica e la volontà di essere diversi. Sono gli anni in cui anche la fotografia subisce una svolta radicale verso una nuova forma di visione basata sul contenuto e sulla mancanza di ambiguità. I fatti mostrati sono chiari, indelebili ed irriducibili, al di là di ogni interpretazione politica ed estetica. È molto amica del fotografo Robert Frank, ma la persona più importante nella sua vita, dopo il marito dal quale, nel frattempo si è separata, pur mantenendo ottimi rapporti e dopo la Model, è il pittore ed Art Director Marvin Israel. Questi cercherà in ogni modo di rendere pubblico, attraverso la pubblicazione su varie riviste, il suo lavoro. Nel 1967, grazie al direttore John Szarkowski, tiene al MOMA di New York la sua prima mostra, assieme ad altri due famosi fotografi: Gary Winogrand e Lee Fiedlander. I giudizi del pubblico e della critica sono piuttosto contrastanti. Parallelamente alla sua attività di fotografa artistica e di insegnamento in seminari che lei stessa organizza, esegue ancora alcuni servizi di moda per riviste quali Harper’s, Esquire e The New York Times Magazine. Questi lavori sono particolarmente apprezzati perché si differenziano totalmente gli altri, poiché risentono dell’influenza del suo lavoro personale. Le sue crisi depressive si fanno sempre più frequenti e a poco valgono le cure a cui si sottopone. La sua vita diventa una tragica altalena tra momenti di euforia e di cupa depressione. L’unico rimedio sembra quello di fotografare, in maniera quasi maniacale, la “diversità”. Sarebbe molto facile fare della psicologia spicciola, ma probabilmente se si esamina a fondo il suo modo di sentirsi paragonato alla sua opera, forse si intuisce che essa cerchi nel mondo esterno una diversità più evidente di quella che ella vive a causa della depressione.. Il suo lavoro è stato esaminato, da alcuni critici, anche sotto l’aspetto “antiumanistico”. In altre parole, poiché lo spettatore non è sollecitato ad identificarsi con il soggetto, si viene a creare una scissione nell’umanità che non è più “Una”; esiste quindi un mondo distinto fatto di “Altri”. È però vero che i soggetti della Arbus non sembrano considerarsi diversi , e che quindi questa scissione non sia da attribuirsi all’autrice, bensì allo spettatore che vede questa diversità. Fondamentalmente i parametri con cui si definisce la diversità sono frutto del pensiero della maggioranza (alcuni psicoanalisti hanno formulato l’ipotesi azzardata che la schizofrenia sia la fuga consapevole dalla alienazione del quotidiano), ma se ciò è vero, è vero anche il contrario. Del resto guardando l’immagine della “Donna portoricana con un neo” o quella della “Barista a casa con un cane souvenir” non possiamo non riconoscere nel mondo attorno a noi migliaia di persone simili che, forse perché le conosciamo bene, le consideriamo assolutamente normali, se non per quella lieve traccia di cattivo gusto che riscontriamo nelle loro scelte in fatto di arredamento o di abbigliamento. E quando usciamo dalle diaboliche macchinette con le fatidiche 4 fototessera, la prima reazione è quella di dire “sono venuto male!”, “non sembro nemmeno io!” La realtà è che noi tendiamo ad idealizzare la nostra immagine secondo determinati parametri estetici che la realtà della macchina azzera per riconsegnarci la nostra “diversità”. Il 28 Luglio 1971, dopo aver tentato inutilmente di parlare telefonicamente con Diane, Marvin Israel entra nella sua casa e la trova riversa nella vasca da bagno vuota con i polsi tagliati. Nel 1972 è la prima fotografa americana ad avere i suoi lavori esposti alla Biennale di Venezia. “Io lavoro in maniera goffa. Con ciò intendo che se io sto di fronte a qualcosa invece di aggiustarla, aggiusto me stessa…. è importante scattare brutte fotografie – sono quelle brutte che hanno a che vedere con ciò che non si è mai fatto prima… a volte guardando nel mirino della macchina è come guardare in un caleidoscopio e tu lo scuoti ed a volte non si ordina… Io non sono virtuosa … Io non posso fare tutto ciò che voglio. Infatti, pare che non faccia niente di ciò che vorrei. Eccetto essere una spia. Ho “catturato” gente che da allora è deceduta e gente che non sembrerà mai la stessa… Sono intelligente … Non voglio significare che posso commisurare la mia arguzia con la gente, perché non posso, ma posso immaginarmi in qualsiasi situazione. Scelgo progetti fotografici che in qualche moto sono Mata Hariana. Non rischio la mia vita, ma la mia reputazione o la mia virtù, anche se non me ne rimane tanta”.

Il Gigante Ebreo di Diane Arbus